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Normalizzazione e repressione della violenza:una riflessione sulle alternative possibili

È davvero un problema, oggi, la violenza? Dopotutto, essa sembra connaturata alla vita, alla sopravvivenza, manifestazione della perpetua tensione tra forze sociali, desideri, impulsi e bisogni. In molteplici forme, la violenza ha sempre accompagnato la storia dell'Uomo e, se adottassimo una prospettiva storica e confrontassimo la nostra società con quelle dei secoli passati, potremmo sentirci tutto sommato rincuorati e confortati, quasi fortunati, di vivere sotto l’egidia della civiltà moderna. In effetti, il valore della vita, la maggior tutela dei diritti umani, dell’integrità personale e dell’identità individuale, che vengono violati quando viene esercitata violenza (è interessante notare la radice etimologica comune dei due termini), è una conquista tanto faticosa quanto precaria, che oggi sembra vacillare in modo preoccupante. 


È complesso descrivere numericamente un fenomeno che non è sempre visibile ed eclatante: spesso, le categorie con cui si declina la violenza non sono chiare, mancano le parole, sia per vedere che per denunciare. Ad ogni modo, i dati messi a disposizione dai principali enti di ricerca e statistica ci raccontano una storia inquietante, fatta di un proliferare di reati, violenze sessuali e verbali, stalking, maltrattamenti, aggressioni. La paura, l'insicurezza e la diffidenza che ne derivano – acuite da una morbosa ed altrettanto cruenta narrazione mediatica – si diffondono nella società, alterando la qualità della vita e la coesione sociale. La risposta psicologica più basilare all’ansia generata da una tale esposizione alla violenza è quella di adottare meccanismi inconsapevoli di difesa che ci portano a non vedere certe informazioni, ignorarle, scartarle o razionalizzarle, arrivando a negare il fenomeno e a distaccarci emotivamente da esso quanto più possibile. Il rischio è allora quello di sviluppare una sorta di cecità alla violenza, di normalizzarla, addirittura spettacolarizzarla. Questo è oggi, forse, il vero problema.


È fondamentale adottare misure concrete per gestire e prevenire la violenza, ma è evidente che le leggi non bastano, anzi, rischiano di inasprire il fenomeno. Questo perché si tenta di perseguire il cambiamento desiderato applicando con maggiore forza - secondo la logica del più di prima - l’elemento opposto (ad es. l’inasprimento delle pene) a ciò che si vuole evitare (la violenza). Accade così che si ottiene un “effetto rimbalzo”, una polarizzazione insolvibile, un gioco senza fine tenuto vivo dal tentativo stesso di adottare delle soluzioni che sono in realtà il problema. È la situazione paradossale che Watzlawick, Weakland e Fish nel loro libro “Change” (1974) descrivono con la metafora dei due marinai che cercano invano di stabilizzare la barca tirando ciascuno la vela da un lato di essa. Essi descrivono tre forme di intervento errato adottate solitamente nella risoluzione dei problemi:

  1. Bisogna agire ma non si agisce, ovvero si tenta una soluzione negando che il problema sia un problema;

  2. Si agisce quando non si dovrebbe agire, ovvero si tenta di cambiare una difficoltà immutabile o inesistente;

  3. Si agisce a livello sbagliato, ovvero si tenta una soluzione allo stesso livello (logico) del problema. 


Così, se a un estremo si adottano soluzioni che riflettono la volontà di non considerare il problema davvero un problema, all’estremo opposto vi è il tentativo di contrastare la violenza attraverso strategie repressive e coercitive che, allo stesso modo, falliscono nel risolvere il problema, anzi, rischiano di acuirlo. Che cosa fare, quindi? 

Bisogna agire prendendo consapevolezza dell’esistenza del problema, evitando le semplificazioni. Bisogna agire su ciò che è veramente modificabile, evitando interventi utopistici. Soprattutto, bisogna agire ad un livello diverso, superiore rispetto al problema. Una soluzione praticabile che ha forse maggiori probabilità di successo va cercata nel cambiamento delle premesse, promuovendo l’accettazione, la tolleranza, la diversità e l’inclusione. La violenza non è il mostro da sconfiggere, ma l’eco disperata di un’umanità che ha smarrito il sentiero dell’empatia. 


Quanto detto finora, offre una lettura valida anche per i contesti organizzativi, in cui dinamiche di potere e discriminazioni di genere e tra generi possono amplificare il rischio di episodi spiacevoli, rendendo la violenza, interna ed esterna, un tema centrale per la sicurezza, oltre che, ovviamente, per la salute e il benessere di tutti i dipendenti. Altrettanto centrale è, come si è detto, il modo in cui ogni azienda sceglie di occuparsi del fenomeno: la strada più promettente è quella che adotta un approccio olistico che sappia tener conto delle complesse dinamiche umane e che stimoli una revisione profonda dello specifico tessuto socio-culturale dell’organizzazione. La promozione di spazi sociali e lavorativi sempre più sicuri e tutelanti diventa una responsabilità condivisa in cui tutte le funzioni sono chiamate a contribuire informando, educando e sensibilizzando i dipendenti. La vera domanda non dovrebbe dunque essere se e quanto la violenza oggi sia un problema, ma se stiamo facendo tutto il possibile per costruire una cultura aziendale improntata all’inclusione, al rispetto e alla cura reciproca.

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