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Un rientro ‘gentile’

"Non riusciamo più a far tornare tutti in ufficio”. “Molti se ne approfittano”. “Hanno il coltello dalla parte del manico e siamo noi a doverci adattare alle loro richieste, altrimenti si licenziano”.


Di recente mi è capitato spesso di ascoltare simili parole, da parte di manager e dirigenti di grandi e piccole organizzazioni che, di fronte ai cambiamenti delle dinamiche lavorative in atto, non sanno come comportarsi e sono preoccupati. Vorrebbero soluzioni e risposte, ma la verità è che nessuno le ha, al momento. Si deve navigare a vista tra gli scogli normativi, sospinti dalla brezza del buonsenso. E soprattutto, si deve aver il coraggio di perdere di vista i lidi familiari delle convinzioni e delle abitudini rispetto a ciò che funzionava in epoca pre-Covid, per approdare a nuovi approcci lavorativi.


Fermiamoci per un istante a riflettere e poniamoci una domanda, fondamentale dopo ogni crisi: Che cosa abbiamo imparato? Non possiamo infatti metterci in mare senza aver almeno ragionato sulle lezioni imparate, perché è sulla base di queste che possiamo tarare i nostri strumenti di navigazione. Molti hanno già trovato le proprie risposte a questa domanda. Altri, invece, non se la sono ancora posta.

In ogni caso però, dovrebbe essere condiviso il fatto che serve un nuovo modello di management, più attento alla dimensione emozionale del lavoratore e sintonizzato sul sentire. Perché questi due anni non sono stati facili e hanno pesato sul benessere di tutti noi, aumentando i livelli di stress, ansia e preoccupazione. Ciò è avvenuto in particolare nei contesti lavorativi, in cui fragilità ed emozioni sono spesso poco gradite. La sfida non è far tornare le persone in ufficio trovando la giusta formula (Due giorni in ufficio e tre a casa, oppure tre in ufficio e due a casa), ma ricreare un ambiente lavorativo tale per cui sono i lavoratori stessi a desiderare di tornarci.

Questo è possibile attraverso un nuovo stile di leadership, quello che qualcuno definisce leadership gentile. Suona quasi come un ossimoro, un controsenso: due parole che, messe l’una accanto all’altra, sembrano stridere. Per poter accettare questo accostamento bisogna abbandonare alcune convinzioni sulla gentilezza, ad esempio che essa equivalga a debolezza e che essere gentili crei uno squilibrio di potere: “Se sarò gentile qualcuno si approfitterà di me”. “Se sarò gentile potrebbero pensare che non ho polso e che non so farmi rispettare”.

La leadership gentile non è uno stile codificato che rientra in un modello teorico di riferimento: si tratta piuttosto di una dimensione intima e personale, e ciascun manager, dirigente o supervisore che sia, deve trovare quell’espressione di gentilezza che più risuona con le proprie caratteristiche personali, e incarnarla nel proprio stile di leadership. Questo modo di guidare consente di creare un ambiente in cui tutti si sentono valorizzati e liberi di mostrare le proprie fragilità.


Oggi, le organizzazioni dovrebbero guardare alla gentilezza con lungimiranza e considerarla un investimento per ricostruire quei livelli di engagement lavorativo che in molti casi si è indebolito negli ultimi due anni (State of the Global Workplace: 2021 Report, Gallup). Il work engagement è un costrutto importante nella psicologia del lavoro, un indicatore chiave del benessere organizzativo ed è definito come “uno stato d'animo positivo, appagante, legato al lavoro, caratterizzato da vigore, dedizione e assorbimento” (Schaufeli et al., 2001).

Alla base dell’engagement c’è la soddisfazione dei tre bisogni psicologici fondamentali dell’essere umano (Ryan & Deci, 1985): il bisogno di autonomia, di competenza e di relazione. La gentilezza di un leader passa anche attraverso il saper adeguatamente soddisfare questi tre bisogni nelle persone che guida. Solo quei manager che sapranno incarnare la gentilezza ed essere engaging riusciranno pian piano a ritrovare nuovi equilibri e coinvolgere i dipendenti, riportandoli in ufficio con rinnovato entusiasmo e vigore.

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