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La sfida dell’Inclusion. Verso un “umanesimo organizzativo”

di Andrea De Pasquale


I recenti episodi di cronaca legati ai conflitti che caratterizzano la contemporaneità gettano uno sguardo sgomento e attonito in merito alla capacità umana - presunta, ma così ineludibile - di trovare modalità alternative all’aggressione e alla vessazione dell’altro per affermare le proprie idee, la propria visione del mondo. Modalità, queste, che da sempre caratterizzano il tentativo di reprimere quel disagio che nasce dal confronto con la diversità ed attorno alla quale abbiamo costruito muri di diffidenza e pregiudizio.

Oggi però siamo di fronte ad una sfida: quella dell’inclusione. L’inclusione è l’atto concreto dell’accettazione della diversità ovvero il riuscire a riconoscere, comprendere e valorizzare le caratteristiche dell’Altro, attraverso la determinazione di uno spazio fisico e culturale ospitale, accogliente, equo. Ce lo ricorda anche l’Agenda 2030 negli obiettivi 5, 8 e 10, rispettivamente "Parità di genere”, “Lavoro dignitoso e crescita economica” e “Ridurre le disuguaglianze”. Di fronte a questa sfida urgente le organizzazioni hanno una responsabilità sociale ed etica (oltre che normativa) in cui, tuttavia, le buone intenzioni trovano difficoltà nel concretizzarsi. Eppure la capacità di promuovere un ambiente inclusivo è un valore prezioso, che arricchisce le imprese e chi nelle imprese lavora. Come infatti emerge dalla ricerca “Future of Work” di Inaz – Osservatorio Imprese Lavoro e Business International – Fiera Milano, le organizzazioni con politiche D&I raggiungono risultati economici e di innovazione migliore rispetto alle altre ma, seppur circa l’80% di esse ritiene importante adottarle, ben poche hanno elaborato un piano strutturato. Esistono opportunità normative per supportare le organizzazioni ad abbattere quei muri di diffidenza e promuovere l’inclusione, come la ISO 30415:2021 e la UNI PDR 125. Ma è sufficiente? È possibile compiere questo salto culturale e di pensiero in modo esclusivamente strumentale?


Occorre un’analisi più profonda del microcosmo organizzativo. Le organizzazioni, nella loro accezione più generale, possono essere considerate, come propone K. Weick, dei “sistemi complessi a legame debole”. La complessità è data dalla capacità dell’organizzazione di interagire in contesti mutevoli sapendo adattarsi di volta in volta alle necessità, senza per questo rinunciare alla propria specificità. Il legame debole, invece, trova compimento nella sua capacità di assumere di volta in volta connotazioni inattese e difficili da prevedere, se non all’interno di un orizzonte di significati molto più ampio. Questa “duttilità” esige un prezzo in termini di benessere lavorativo? Quali sono le criticità che questa impostazione manifesterebbe? Quali prospettive si palesano concrete al fine di avviare un ampliamento della pensabilità dell’organizzazione come polifonia di relazioni in cui ognuno ha un posto e un posto è riservato per ognuno? La questione è evidentemente molto complessa. È essenziale per la vita organizzativa focalizzare e raggiungere gli obiettivi previsti, tuttavia è necessario tenere sempre ben monitorato il livello di benessere di tutti gli attori in gioco, poiché se la fedeltà all’obiettivo comporta un “tradimento” dei valori di chi opera a tale scopo, il risultato sarà un sistema disfunzionale in cui sacche di malessere saranno sempre più ampie e radicate. C’è da chiedersi, molto banalmente, se e quale sia il livello di conoscenza reciproca tra i vari attori, quali significati li accomunino, quali aspettative siano condivise, quali le posizioni inconciliabili. Un “umanesimo organizzativo”, così scelgo di chiamarlo, che non preveda la rinuncia agli obiettivi individuati quanto piuttosto la loro “incarnazione”, ossia la consapevolezza che l’obiettivo ultimo e più elevato non può che essere il benessere degli individui, sacrificando altresì qualsiasi atteggiamento competitivo che preveda il modello “mors tua vita mea”.

Questo lavoro di decostruzione necessita sforzo ed esercizio quotidiano, richiede disponibilità e anche una certa dose di fiducia nel processo. La promozione delle differenze, delle specificità personali e la cultura dell’inclusione all’interno della progettualità organizzativa potrebbero essere territorio comune su cui concertare il confronto e la condivisione di valori caratterizzanti l’esperienza di ciascun individuo, mettendo in discussione gli stereotipi che inevitabilmente caratterizzano il nostro modo di pensare e da cui si originano conflitti che, spesso, possono sfociare in vere e proprie aggressioni. Si tratta di agevolare l’individuazione di spazi e/o tempi innanzitutto interiori così che caratteristiche e realtà diverse dalla propria percepita possano trovare ospitalità. La ricerca del colpevole, del capro espiatorio, risulta oggi più che mai una tendenza in crescita. Da un lato ricalca un modello relazionale inconscio e tutelante volto a difendere un territorio, dall’altro impedisce lo sviluppo di una autentica e onesta riflessione su di sé finalizzata ad implementare il principio di responsabilità all’interno dei limiti che ogni esperienza umana prevede.

È questa la direzione verso cui i sistemi umani, le organizzazioni, possono andare. Se oggi esistono apparati normativi, protocolli operativi, processi standardizzati che contribuiscono a limitare l’imprevisto, è tuttavia necessario che ci sia la consapevolezza diffusa che proprio l’imprevisto è quanto di più prevedibile nell’esperienza umana e che la sfida alla complessità sarà sostenibile solo quando l’Uomo accetterà di assumersi pienamente la responsabilità della cura di sé e dell’altro inteso come Cosmo.




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