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Le parole che feriscono: il linguaggio come specchio e strumento della violenza

Ci sono parole che non lasciano lividi sulla pelle, ma scavano ferite invisibili. Le usiamo ogni giorno, spesso senza rendercene conto. Eppure, è da esse che nasce una parte della violenza che attraversa la nostra società: quella che si esercita attraverso il linguaggio.


Il rapporto tra linguaggio e realtà è da sempre oggetto di riflessione filosofica. Le parole non descrivono soltanto il mondo: lo costruiscono. Come ricordava Aristotele, esse sono semplici suoni finché non attribuiamo loro un significato, e proprio in questo atto di attribuzione si annida la possibilità che diventino tossiche. Il linguaggio non nasce violento, ma può esserlo, quando si fa portatore di stereotipi e pregiudizi che modellano la nostra percezione della realtà e dei rapporti di potere tra i generi. Poiché siamo esseri relazionali, il linguaggio è il nostro strumento fondamentale di esistenza e di comunicazione. Nelle relazioni, attraverso le parole e i gesti, co-costruiamo la realtà sociale, compresi gli stereotipi che pesano sulla figura femminile. Le parole, i toni, le posture e gli sguardi non sono mai neutri: possono trasmettere rispetto o svalutazione, empatia o dominio.

Molte delle parole che ci circondano sono impregnate di violenza simbolica, una forma di violenza invisibile ma potente che non lascia segni sulla pelle, ma incide profondamente sulla psiche, rafforzando rapporti di potere e subordinazione.


Nel corso della storia più recente, abbiamo assistito ad un parziale percorso di smascheramento della violenza implicita nel linguaggio, che ha mostrato come molte espressioni apparentemente innocue nascondano la matrice patriarcale alla base della disparità di genere. Basti pensare a parole comuni come “femminuccia” per indicare debolezza, “uomo vero” per esaltare forza e coraggio, “zitella” per ridicolizzare una donna non sposata, o “donna facile” per giudicarne la libertà sessuale. Termini che sembrano innocui, ma che, giorno dopo giorno, continuano a dire chi può essere cosa, e chi no. Nel Lessico familiare (Cretella e Mora Sanchez, 2014), ogni parola diventa una lente per capire quanto la violenza contro le donne si annidi anche nel linguaggio di tutti i giorni, quello “di casa”, che spesso non percepiamo come ostile. 


Pensiamo al termine femminicidio, che ha dovuto attendere quasi un decennio prima di entrare nel linguaggio giuridico italiano, a dimostrazione di quanto sia difficile dare nome a ciò che si preferisce non vedere. Eppure, come ricorda la Convenzione di Istanbul (2011), la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani, una forma di discriminazione radicata nella cultura patriarcale.

La vera problematicità, dunque, non è nella lingua in sé, ma nel modo in cui la usiamo. Il sessismo linguistico è la spia di una società che ancora fatica a riconoscere la parità. Cambiare le parole non basta a cambiare il mondo, ma è da lì che si comincia: dalle parole giuste, dette al momento giusto.


 
 
 

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